Ora è ufficiale: il PD apre una discussione su se stesso; e lo farà in modo organizzato, non frettoloso e attraverso il coinvolgimento degli iscritti e di personalità (come Fabrizio Barca) esterne al gruppo dirigente.
Era da tempo che nel PD si avvertiva la necessità di una discussione del genere; e, durante la segreteria di Bersani, fu Bersani stesso a porre il problema, epperò egli non riuscì neppure ad avviare questa discussione.
Ora finalmente, anche se non in modo programmato (non dimentichiamo che alla riunione della Direzione del PD di ieri si è arrivati solo grazie allo scoop di qualche settimana fa di Repubblica sul calo degli iscritti), il confronto prende corpo e promette – alla luce del dibattito che si è avuto ieri – di essere fruttuoso.
In questi mesi – sia tra l’opinione pubblica più avvertita che vota per i democratici che, soprattutto, tra quella fascia di iscritti più sensibile a una certa idea di partito (quella del partito di massa del ‘900) – è maturata la convinzione che, con l’arrivo di Renzi, si andava inesorabilmente allo smantellamento del partito per trasformarlo in un comitato elettorale, utile soltanto a raccogliere voti ma non abilitato a partecipare alle scelte che contano. Non solo: ma anche che questa operazione aveva un unico scopo: demolire e seppellire definitivamente i comunisti (per dirla con le parole di qualche fan di Renzi) e cioè quella tradizione della sinistra che – dopo lo scioglimento del PCI e la fine del PSI – era approdata nel PD e, anzi, l’aveva co-fondato, per incamminarsi quindi verso un mutamento antropologico dello stesso PD e tramutarlo in qualcosa di indistinto e fortemente permeato di suggestioni destrorse o, al meglio, in una nuova DC tutta centrista ma un po’ anche andreottiana.
A creare e ad accreditare questo clima hanno contribuito in tanti: certamente – e fortemente, anzi – i media e, in particolare, analisti politici il cui compito ormai sembra essere diventato quello di misurare il grado di renzismo inoculato da Renzi nel corpo del PD e quanto il PD sia diventato il PDR (come scrive, a ogni occasione, Ilvo Diamanti). Bisogna dire però che anche Renzi ci ha messo molto del suo: con le reiterate tirate contro la CGIL, ad esempio, con le sviolinate a Marchionne e agli imprenditori diventati improvvisamente tutti buoni, un modo di approcciare le riforme – non solo quelle costituzionali – con quello che una volta si sarebbe definito giacobinismo o riformismo dall’alto, a scapito della partecipazione dal basso nelle scelte e negando un ruolo ai cosiddetti corpi intermedi, in primo luogo ai sindacati, ecc.
L’apertura della discussione sui problemi del partito, alla quale è chiamato a dare il proprio contributo tutto il PD; e il fatto che Renzi l’abbia impostata non partendo da posizioni precostituite, ma assolutamente aperte, in qualche modo oggi fanno giustizia di tutto il gran chiasso che si è fatto in questi mesi sui media e anche nel PD circa la volontà – non dichiarata, ma certa – del nuovo inquilino di Via del Nazareno di puntare alla liquidazione del PD come partito di sinistra; e creano le condizioni giuste per avere un confronto vero e produttivo su un tema davvero decisivo – per il futuro del Paese e della stessa sinistra riformista italiana ed europea – come appunto quello del partito, della sua cultura politica, dei valori che l’ispirano, delle forme organizzative, ecc.
Vediamo allora di utilizzare tutti al meglio questa opportunità. E la cosa peggiore che oggi si possa fare è quella di tirarsi fuori da questa discussione, rinunciando a far valere le proprie convinzioni.
Se ci si riflette, la scelta di Renzi è di fatto anche un messaggio – positivo e apprezzabile – a quelle tante anime in pena che incontro ogni giorno – sia per strada che su Fb – e che ogni giorno si pongono la domanda di dove sta andando il PD e se la sinistra è finita e si interrogano se abbandonare o no il PD, visto che le cose vanno (secondo loro, ovviamente) tutte male e non c’è speranza alcuna che possano essere rimediabili.
Vorrei esortare queste amiche e questi amici ad avere più fiducia, innanzitutto in se stessi: le radici del PD – checché se ne pensi – affondano largamente nella storia di una sinistra che ha trasformato profondamente la storia dell’Italia e che perciò non sono destinate a deperire così facilmente e che a nessuno è agevole recidere. Oggi, anzi, esse possono ancora dare frutti, in presenza di una situazione sempre più ingarbugliata e difficile, a condizione naturalmente che tutti abbiano la consapevolezza necessaria che esse possono di nuovo fruttificare solo se si parte dalla convinzione che oggi la sinistra non può in nessun modo essere la fotocopia del passato e che la sua missione è dare risposte ai problemi del nostro tempo e a un mondo profondamente cambiato.
D’altra parte: chi oggi può assolvere alla funzione del PD di rimettere in sesto il Paese? Nessuno, non c’è alcun dubbio in proposito. E allora, se le cose stanno così, che senso ha abbandonare e lasciare campo libero agli altri, tirarsi fuori in uno dei momenti decisivi della storia italiana ed europea e precludere così a se stessi di partecipare a scelte cruciali per il PD e per l’Italia?
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