Nell’ultima mappa pubblicata nei giorni scorsi su Repubblica e dal titolo “Renzi, leader del post-partito”, Ilvo Diamanti sostiene che molte critiche nei confronti di Renzi per la “battutaccia riservata a Fassina” – che poi ha portato alle dimissioni dal governo del vice-ministro – “appaiono fuori luogo. Fuori centro”.
Ma stanno davvero così le cose?
Diciamo subito che, sulla inopportunità del “Fassina chi”?, non c’è attenuante che tenga. Innanzitutto per il rispetto che si deve alle persone e alle opinioni che esse esprimono, piacciano o no: da parte di chiunque, ovviamente, ma soprattutto da parte di chi – come Renzi – è oggi investito della particolare responsabilità di rappresentare il PD, un partito tra l’altro che definisce se stesso “democratico” . D’altra parte, Renzi stesso, all’indomani delle primarie – a sottolineare appunto questa sua volontà di rispettare, oltre che le persone, anche le loro idee – ha dichiarato di voler essere il segretario di tutti: bene, ma se vuole esserlo davvero, non può in nessun modo e in nessuna occasione dimenticare questo suo dovere, anche se è nel suo carattere e gli viene facile la battuta.
Ma la inopportunità della sua “battutaccia”sta anche in un altro fatto.
In realtà, Renzi – rifugiandosi nella battuta – voleva scansare la questione posta da Fassina, e sulla quale il giornalista intendeva interrogarlo, relativa alla necessità che il nuovo gruppo dirigente renziano si impegnasse in prima persona nel governo e la smettesse di fare un giorno sì e l’altro pure il tiro al bersaglio su Letta e sul governo: una questione, quindi, di grande rilevanza politica – visto che il Presidente del Consiglio è un uomo del PD – che attiene al rapporto che il nuovo PD intende avere con l’attuale governo.
E’ una questione che ancora oggi Renzi non ha chiarito fino in fondo, ma su cui sono urgenti parole chiare e definitive se si vuole evitare che il governo continui a navigare nell’incertezza, a tutto beneficio di Berlusconi e di Grillo.
All’indomani immediato della sua elezione, Renzi ha fatto bene a porre con chiarezza e determinazione la necessità per il governo di cambiare passo rapidamente e su un programma che affronti, in tempi certi e definiti, le urgenze del Paese, a partire dalla questione del lavoro: d’altronde, di fronte all’estendersi e all’acutizzarsi del disagio sociale e al rischio che a egemonizzare questo disagio siano Grillo e Berlusconi, non si poteva e non si può fare diversamente.
Una scelta, quindi, necessaria; ed è certo positivo il fatto che, sulla stessa lunghezza d’onda del segretario del PD, si muova anche Letta, proponendo alle forze della sua maggioranza la firma di un patto che contenga in maniera puntuale sia le scelte da fare che i tempi della loro trasformazione in leggi dello Stato; e spinga con forza anche il Presidente della Repubblica, come è apparso chiaro nel suo messaggio di fine anno.
Ma, proprio per non disperdere e vanificare questa convergenza di obiettivi, è decisivo che vengano rapidamente diradati i sospetti sulla possibile durata del governo, alimentati anche da dichiarazioni sconsiderate di membri della nuova segreteria nazionale e dalle quali Renzi ha fatto bene a prendere subito le distanze; ma è chiaro che, a questo fine, non debbono esserci dubbi di sorta sulla lealtà del PD nei confronti del governo e, viceversa, sulla reale volontà di Letta e dell’intero governo di muoversi su contenuti e tempi definiti e di imprimere l’accelerazione necessaria alla sua attività. Evitando contemporaneamente anche un gioco assai pericoloso e che però Renzi sembra voler utilizzare, con il rischio di destabilizzare anche per questa via il governo: quello cioè di giocare contemporaneamente su più tavoli – alternativi tra loro -, discutendo con le forze di maggioranza il patto di coalizione e cercando invece l’accordo con Grillo e Berlusconi sulla legge elettorale.
Ma, tornando alla mappa e alle ragioni per le quali egli giudica esagerate le critiche a Renzi per il suo gesto di supponenza (come l’ha definito Civati) nei confronti di Fassina, Ilvo Diamanti ritiene che questo dipenda dal fatto che la sinistra ha difficoltà a “comprendere quanto è avvenuto e sta avvenendo, nella politica italiana”. E, più in particolare, egli è convinto che “il (pre) giudizio nei confronti di Renzi, di essere un “berluschino”, un nuovo, piccolo Berlusconi” è, in realtà, “più che un’accusa, la conferma della difficoltà, nella sinistra, di capire cosa sia successo negli ultimi vent’anni. Renzi non è un leader berlusconiano, ma, semmai, postberlusconiano. Come i tempi in cui viviamo”.
In una parola, egli pensa che siamo di fronte a critiche che perdono di vista le ragioni di fondo che hanno portato alla elezione – con un grande scarto di voti rispetto agli altri candidati – di Renzi; e che ancora oggi la sinistra si rifiuta di prendere atto di quanto profondamente l’esperienza berlusconiana abbia cambiato il Paese e di quanto indelebile sia il segno che essa ha lasciato sulla vita nazionale e al quale non può sottrarsi neppure il PD, che lo voglia o no.
Secondo Diamanti, infatti, l’Italia “risente ancora dei modelli e dei valori interpretati da Berlusconi. Anche se oggi sono resi inattuali dalla crisi. Tuttavia, l’esperienza di Berlusconi ha impresso sulla politica un segno indelebile. Ha imposto la comunicazione sull’organizzazione, i media sulla partecipazione. Ha portato all’estremo la personalizzazione, attraverso l’invenzione del suo “partito personale”. Insomma, ha imposto la “politica come marketing”, importando in Italia un “modello, peraltro, già affermatosi altrove, in Europa e negli Usa”, mentre “il Pd è stato condizionato dal suo passato”; e ciò gli ha impedito di innovare e quindi di vincere la competizione con Berlusconi.
Le ragioni della vittoria di Renzi vanno perciò ricercate proprio nella sua capacità di non chiudersi a tutto ciò che di nuovo in questi venti anni è maturato anche in Italia (anche a seguito della particolare curvatura populistica e mediatica che il Cavaliere ha dato alla personalizzazione della politica) e, prima ancora, nelle altre democrazie dell’Occidente; e al fatto che egli riesce a interpretare un Paese nel quale “siamo tutti post-berlusconiani, cresciuti o invecchiati in una società educata dai suoi media. E influenzata dai suoi valori. Che Berlusconi non ha inventato. Ma ha riprodotto e rilanciato, attingendo al senso comune. In un Paese dove la sinistra è stata sempre minoranza e l’anticomunismo un sentimento maggioritario…”,
Per Diamanti, Renzi parte proprio da qui: per costruire oggi un partito che vada “oltre il Pd dei “sinistrati ” (per echeggiare Edmondo Berselli). Oltre l’eredità dei partiti di massa. Gli interessa costruire il Post-Pd, modellato intorno al Capo, mentre la Sinistra (e ancor più il Centro) è sempre stata un’area affollata da molti capi, in reciproca contesa”.
Queste dunque, secondo Diamanti, le dinamiche attuali della società italiana; ed esse non possono non segnare le scelte attuali del PD, al di là del fatto che poi il modello di partito del Capo si dimostri o no vincente.
Per la verità, non si tratta di idee nuove: esse, infatti, si muovono fondamentalmente nella scia delle analisi portate avanti ormai da anni da Mauro Calise sui processi di personalizzazione della politica nelle democrazie moderne; e, sul piano pratico, ricalcano il modello veltroniano che già a suo tempo – sulla scorta, tra l’altro, di quanto stabilisce lo Statuto del PD – Veltroni tentò di incarnare e far vivere, ma con i risultati che sappiamo.
Ma le cose oggi stanno proprio come le racconta Diamanti? E il PD non può che prendere atto di quello che oggi è il senso comune e adeguarsi?
E’ evidente che, in politica, bisogna sempre partire e comunque tener conto dello spirito del tempo, soprattutto quando si pretende di cambiare la realtà esistente. Ma c’è bisogno anche – se si vuole davvero il cambiamento (e oggi sono molte le cose che hanno bisogno del cambiamento, in primo luogo le disuguaglianze, la precarietà del lavoro, la negazione dei diritti) – di reimpossessarsi, prima ancora di occuparsi delle forme della politica e del partito, di un pensiero critico che si proponga di mettere in discussione le cose che non vanno e sia capace di proporre una visione alternativa rispetto all’esistente, andando anche, se necessario, contro il cosiddetto senso comune. Anche perché il senso comune è anch’esso un prodotto storico, soggetto quindi a evolversi e a essere sostituito da nuovi sensi comuni; e poi, come ci ricorda Gramsci, c’è sempre una pluralità di sensi comuni, a seconda delle diverse stratificazioni sociali, il che significa che anche oggi nella società italiana non ci sono solo le dinamiche che rileva Diamanti, ma ce sono anche altre.
Oltretutto, la questione della personalizzazione della politica non è in sé qualcosa di incompatibile con la storia della sinistra.
Come anche Calise ricorda nel suo ultimo libro Fuorigioco (Laterza, ottobre 2013), in cui critica il ritardo del PD nell’accettare un processo – quello appunto della personalizzazione della politica – che da tempo connota le democrazie dell’Occidente (in primo luogo negli Usa), che anche nel PCI c’era una forte personalizzazione, con leader dello spessore e della qualità di Togliatti e Berlinguer. Solo, ed è questa la questione di fondo, che nel PCI a fronte del leader c’era anche un forte gruppo dirigente, alla stessa stregua in cui negli Usa a fronte di un Presidente forte c’è anche un altrettanto forte Congresso.
Il vero punto di debolezza del PD, in questi anni, è stata l’assenza di un vero gruppo dirigente, consapevole del suo ruolo e anche dotato di un grande senso di responsabilità e di capacità di autodisciplina, anche per i meccanismi che finora hanno presieduto alla formazione dei gruppi dirigenti a tutti i livelli: da questo punto di vista, lo strumento delle primarie – che pure risulta utile nella scelta dei candidati alle più alte cariche istituzionali – si è rivelato invece esiziale quando esso è stato utilizzato per la selezione dei gruppi dirigenti del partito, favorendo opportunismo e ricorso allo scambio clientelare e alimentando in modo abnorme la personalizzazione della politica anche a livello di base.
E anche le questioni di dare più spazio ai giovani nei gruppi dirigenti del partito e nelle istituzioni e allargare un modo consistente la loro militanza nel PD; e di puntare a un diffuso impegno civile volontario (come negli Usa, durante le campagne elettorali) non contrastano affatto con la presenza di un gruppo dirigente nazionale forte, in grado di garantire il giusto equilibrio tra il capo e le diverse anime del partito (che sono cosa ben diversa dalle correnti organizzate): il problema è – come sempre – la capacità reale del PD di dare rappresentanza e voce ai problemi dei giovani, non di lisciargli il pelo in modo spesso strumentale e paternalistico; e di rendere gratificante e fornito di senso, idealmente e politicamente, l’impegno civile volontario.
In sostanza, prima ancora e più che la questione di dare anche a sinistra forma compiuta a un modello di partito del Capo, un partito personale insomma, l’esigenza prioritaria che ha ancora oggi il PD è darsi da fare sia sul piano politico che sul piano culturale per fare avanzare un altro tipo di senso comune che abbia al centro la necessità di riportare in primo piano giustizia sociale, uguaglianza, efficacia della democrazia, diritti e sia capace di ridare senso e dignità alla politica.
Sono pienamente in accordo con te. Antonio Rosini
Non c’è analisi che tenga sui vari partiti nazionali e su come si organizzano e si esprimono nella comunicazione con i cittadini, se non si ha una visione di come funziona oggi il potere economico-finanziario a livello globale. La crisi sistemica che nella congiuntura vede vincente a man bassa il capitalismo finanziario richiede un nuovo “Capitale” aggiornato ai tempi a livello di analisi e di un nuovo “Manifesto” conseguente a tale analisi.
La chiarezza dell’analisi e degli intenti E’ NECESSARIA in tale condizione, diversamente un qualsiasi premier di governo italiano ha lo stesso valore di efficacia del sindaco di Roccacannuccia rispetto alle politiche nazionali.
O si riesce a prefigurare un “blocco sociale” quale emerge dalle contraddizioni del capitalismo finanziario a livello globale, che si pone in alternativa , o diversamente , come sta avvenendo, la politica in Italia è roba da discussione del Lunedì post domenica sportiva.
Merce che non mi interessa
Antonio, d’accordo, ma io vedo un deficit di punto di vista nelle analisi correnti, a partire naturalmente da quelle alla Ilvo Diamante. Abbandonarsi all’onda, o al senso comune, è sterile per la conoscenza della “verità effettuale della cosa”, che si può avere solo non basandosi su idee generiche e preconcette, o su aspettative inconsistenti, o su singoli eventi che perdono di vista la complessità dei processi in corso. Spesso mi sembra di cogliere nelle analisi e nei ragionamenti premesse basate su punti di vista soggettivi, di singoli o di gruppi, di movimenti o di partiti. Lo sforzo necessario, che avverto come una necessità vitale, è, invece, quello di partire dai processi reali, sociali, economici, culturali, antropologici, che si stanno svolgendo. Difficile, certo, ma è questa la realtà, dove si nasconde “la verità effettuale della cosa”. Un caro saluto. Silvana Pelusi
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